La filter bubble è alla base di quel fenomeno che tutti noi evidenziamo, da qualche anno, sui motori di ricerca (come Google) e sui social network (come Facebook), per il quale vengono mostrati risultati diversi a seconda di chi sta effettuando la ricerca.
Una personalizzazione fatta autonomamente dalle piattaforme digitali sulla base della pertinenza con la posizione, l’orario, la cronologia di navigazione e le interazioni effettuate dall’utente in precedenza.
Da un lato è utile per salvarci dal fenomeno dell’overload informativo, l’eccessiva mole di informazioni disponibili su Internet ogni giorno. Spesso percepita come un “rumore” in termini cognitivi.
Dall’altro ci sta fornendo solo contenuti che aumentano il tempo trascorso sulla piattaforma. Quindi tenendoci al riparo da informazioni che potrebbero incrinare le nostre certezze e rendere l’esperienza in Rete meno confortevole.
Filter Bubble: cosa è
Tutti noi ci avvaliamo di Internet per sapere più cose, avere più opinioni, confrontare.
In modo semplice, gratuito e senza censure.
Che si tratti di portali informativi, social networks, biblioteche e dizionari virtuali.
Una diversità di opinione che sta alla base del dibattito democratico.
Ma osservando Internet con spirito critico questi vantaggi sono ancora attuali?
Il sociologo e attivista Eli Parisier nel suo libro “Il filtro. Quello che internet ci nasconde” ha le idee piuttosto chiare.
Parisier criticava il grado di personalizzazione delle informazioni su Internet.
Sosteneva che la maggior parte di noi è isolata intellettualmente in una bolla culturale ed ideologica.
La filter bubble, anche nota come bolla di filtraggio o bolla dei contenuti o gabbia di filtri.
Una gabbia in cui la nostra visione del mondo viene costantemente confermata.
Dove sentiremo solo opinioni con le quali siamo in accordo e troveremo consigli che sono perfettamente in linea con i nostri gusti e le nostre certezze.
Dovendo faticare per trovare punti di vista differenti.
Parisier aveva infatti notato che utenti diversi, per esempio a seconda del loro atteggiamento politico, ottenevano risultati diversi per gli stessi termini di ricerca.
Come, ad esempio, parrebbe essere capitato con la vittoria di Trump alla precedente tornata presidenziale americana. Una vera e propria svolta politica inattesa.

Personalizzazione dell’esperienza online
Come ormai noto, le grandi aziende di servizi online, da Google ai social network, raccolgono dati riguardanti il comportamento e l’utilizzo della rete sulle proprie piattaforme.
Poiché il loro obiettivo ultimo è ovviamente guadagnare con la pubblicità personalizzata, devono raccogliere il maggior numero di dati possibili.
Ecco perché devono aumentare il nostro tempo di permanenza sulla piattaforma e adattare l’esperienza alle nostre esigenze.
Nel frattempo devono raccogliere i nostri dati di navigazione utilizzando dei cookies e degli algoritmi che tengono conto delle preferenze direttamente espresse dagli iscritti (come i like) o delle loro interazioni più frequenti.
Algoritmi che nella maggior parte dei casi non sono completamente resi noti.
Ciò significa che non è personalizzata solo la pubblicità, ma anche le informazioni.
Ecco perché ci ripropongono “il meglio” legato “ai nostri gusti” o “ai nostri comportamenti”, qualcosa di simile a quello per cui abbiamo già mostrato interesse.
Libri simili a quelli che abbiamo già letto, prodotti simili a quelli che abbiamo già comprato, viaggi simili a quelli che abbiamo già vissuto.
Ogni azione online viene sapientemente rilevata e memorizzata: cosa facciamo, come ci muoviamo, cosa acquistiamo e cosa desideriamo.
Da questo sarà possibile scegliere selettivamente la risposta migliore da fornirci tra tutte quelle possibili.
Vantaggi e svantaggi
Sembra che tutti abbiamo la stessa opinione, non ci sono quasi mai dibattiti e tutti gli articoli non fanno che confermare le nostre opinioni.
Basta scorrere il feed di notizie per rendersene conto.
A un primo sguardo potrebbe sembrare positivo e in linea con l’attenzione selettiva secondo la quale tendiamo ad ascoltare solo i pensieri che confermano le nostre posizioni, ignorando il resto:
- i feed non contengono più articoli non rilevanti;
- i post popolari non sono più pieni di commenti che comunque non verrebbero letti;
- non ci sono più dibattiti con divergenze di opinione che comunque non porterebbero ad alcun risultato.
Come abbiamo detto ci aiuta a sopravvivere all’overload informativo. Sebbene questo filtraggio non sia scelto da noi ma venga delegato a un algoritmo.
Ed è la stessa cosa che ci fa agire quanto nella vita offline scegliamo il circolo, bar e cerchie di amici da frequentare, oppure i canali televisivi e i giornali da guardare.
A lungo termine, tuttavia, questo crea problemi che si manifestano solo quando si mettono in discussione i meccanismi di filtraggio dei social media:
- ci abituiamo a ricevere un’eccessiva approvazione;
- difficilmente ci imbattiamo in opinioni contrarie al nostro punto di vista, intrappolati all’interno di gruppi con ideali identici tra loro come in una cassa di risonanza;
- l’assenza di influenze esterne mitiganti consente agli agitatori di alimentare fake news che si diffondono in modo incontrastato fino ad acquisire lo status di notizie.
In realtà siamo corresponsabili del fatto che non ci venga più offerta una visione alternativa alla nostra.
Da un lato le grandi aziende e i loro algoritmi non ci informano, o solo in modo insufficiente, su come e perché filtrano determinate informazioni. Tantomeno ci consento di cambiare o disattivare autonomamente il filtraggio.
Dall’altro, tuttavia, tutti noi siamo congiuntamente responsabili per il contenuto che riceviamo segnalando in anticipo una mancanza di interesse per quanto non sia conforme alla nostra opinione.
Filter Bubble: come uscirne
Se desideriamo liberarci dalle bolle di filtraggio abbiamo a disposizione diverse opzioni:
- usare strumenti che permettono una ricerca libera e consapevole: i motori di ricerca Qwant, e Gibiru, promettono di non raccogliere o valutare informazioni sul comportamento dei ricercatori, lo stesso vale per DuckDuckGo. Infine ci sono estensioni, come StartPage, Privacy Badger e Trackblocker, che aiutano a evitare il monitoraggio del comportamento di navigazione degli utenti;
- utilizzare il maggior numero possibile di mezzi e fonti diversi per informarsi come ad esempio i migliori aggregatori di notizie come Squid, Diggita, Intopic e Reddit;
- sui social network seguire pagine differenti dai propri gusti o opposte alle proprie opinioni, in modo da poter ricevere una più ampia gamma di informazioni.

La navigazione in incognito, non offrendo anonimato, in questo caso non è sufficiente poiché i siti web utilizzano gli indirizzi IP ed il fingerprinting del browser (impronta digitale) per identificare l’utente.
Quantomeno con la normativa sui cookies e l’attuazione della normativa europea in materia di protezione dei dati (Regolamento generale per la protezione dei dati personali n. 2016/679 o GPDR, General Data Protection Regulation) si è messo un punto alle implicazioni sulla privacy legate proprio alla raccolta ed eventuale cessione a terzi dei dati di navigazione.
Una volta valutati vantaggi e svantaggi, non ti resta che scegliere se uscire da questa comfort zone che limita la tua curiosità, le tue idee e la portata delle informazioni a cui potresti accedere.
Consigli di lettura
Titolo: “Il filtro. Quello che internet ci nasconde”
Autore: Eli Pariser
Casa editrice: Il Saggiatore