Il mezzo di comunicazione utilizzato è il Web e i Social Network, dove è garantita la libertà di espressione e il diritto all’anonimato. I fenomeni sono l’incitamento all’odio (hate speech), il cyberbullismo, il revenge porn, con comportamenti e contenuti spesso offensivi, discriminatori e persecutori.
Una vera e propria gogna mediatica in cui tutti possono partecipare e dire la propria senza preoccuparsi delle conseguenze.
Quanto di noi traspare dalla parole che usiamo? Quanto è importante essere liberi di esprimersi ed essere rispettati?
Spesso sono le nostre emozioni, soprattutto quelle non consapevoli, a determinare conflitti, discussioni in cui la capacità di ascolto si riduce e l’obiettivo è vincere piuttosto che comunicare.
Come tutelarci
Come emerge dal rapporto diffuso dall’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, nel 2018 l’Italia ha registrato un forte incremento degli episodi di discriminazione.
Sia in Italia che in Europa sono state approvate norme per dare una stretta a questi fenomeni sempre più frequenti online.
Ma è innegabile che la diffusione del linguaggio dell’odio è ormai un problema acclarato a livello internazionale.
Il 18 maggio del 2017 è stata approvata in Italia la legge 71/2017 a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo.
Il 25 maggio 2018 il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) ha espressamente sancito il diritto all’oblio. Si tratta del concreto diritto di ottenere la rimozione definitiva “di qualsiasi link, copia o riproduzione di dati personali” e di fatti del passato che non hanno più una rilevanza pubblica.
Purtroppo ad oggi in Italia non esiste il reato di “hating”. Questo significa che chi è ritenuto un hater dalla Polizia Postale può essere denunciato solo per altri reati, a seconda del tipo di commenti postati.
Si può trattare ad esempio di:
- diffamazione aggravata con mezzo Internet;
- minacce, nel caso in cui i commenti siano intimidatori;
- atti persecutori o stalking, quando si protraggono a lungo;
- atti di istigazione all’odio;
- sostituzione di persona, se si utilizza un account riconducibile a terze persone.
Come ci difendono le piattaforme Social
Le grandi aziende, come Google e Facebook, affidano la compilazione delle norme di utilizzo dei servizi a un gruppo di lavoro specifico, che chiamano scherzosamente i Deciders, “quelli che decidono”.
YouTube vieta esplicitamente lo hate speech, inteso secondo la definizione generale di linguaggio offensivo di tipo discriminatorio.
Facebook allarga un po’ le maglie: lo vieta ma aggiunge che sono ammessi messaggi con «chiari fini umoristici o satirici», che in altri casi potrebbero rappresentare una minaccia e che molti potrebbero comunque ritenere «di cattivo gusto».
Twitter è il più “aperto”: non vieta esplicitamente lo hate speech e neppure lo cita, eccetto che in una nota sugli annunci pubblicitari (in cui peraltro specifica che la campagne politiche contro un candidato «generalmente non sono considerate hate speech»).
É notizia recente invece che Instagram ha dato il via al test della funzione “Silenzia”, creata per proteggere gli utenti dalle interazioni indesiderate. Per attivarla, sarà sufficiente accedere alla propria sezione privacy nelle impostazioni e selezionare il profilo che si intende silenziare, oppure scorrere verso sinistra un commento dell’utente in questione.
E viste le difficoltà legate alla valutazione dei contenuti offensivi o critici, aziende come Facebook e YouTube affidano una parte importante del lavoro alla comunità di utenti, tramite il sistema delle segnalazioni (supervisionate dagli stessi Deciders).
E se di fronte all’hate speech e al cyberbullismo si provano sentimenti di tristezza, rabbia, disprezzo spesso non si fa nulla per difendere le vittime.
Iniziative di sensibilizzazione
Recentemente stanno nascendo interessanti iniziative rivolte all’alfabetizzazione mediatica e a proteggere le vittime.
Il mondo della scuola in Italia, per educare i giovani al corretto uso del web e della comunicazione online e per contrastare fenomeni come bullismo e cyberbullismo, fake news ed hate speech, ha investito sul progetto Safer Internet Center – Generazioni Connesse.
Non mancano poi campagne di sensibilizzazione all’uso delle parole on-line. Ne sono un esempio “Odiare ti costa” e il “Manifesto della comunicazione non ostile”, presentato il 15 maggio 2017 da Parole O_Stili.
E proprio quest’ultimo, nelle sue diverse declinazioni, cerca di spiegare a tutti noi che un altro modo di stare in Rete è possibile:
“Il potere delle parole: commuovono, scaldano il cuore, valorizzano, danno fiducia, semplicemente uniscono… E poi ci sono tweet, post e status: feriscono, fanno arrabbiare, offendono, denigrano, inesorabilmente allontanano.
Perché se è fottutamente vero che i social network sono luoghi virtuali dove si incontrano persone reali, allora viene da domandarsi chi siamo e con chi vogliamo condividere questo luogo.“
Viviamo dunque il mondo virtuale fatto comunque di persone reali, senza mai dimenticare che le parole virtuali hanno lo stesso potere, e soprattutto le stesse conseguenze, delle parole reali.