Bullismo e cyberbullismo sono semplicemente due modi diversi di esprimere la medesima aggressività e carica di violenza verso gli altri, in genere coetanei.
Se negli anni scorsi imperava il bullismo nelle scuole e nelle strade, con l’avvento di Internet e l’uso delle chat di messaging (come WhatsApp e Telegram) l’iter si era modificato in senso peggiorativo: si inizia a bullizzare dal vivo e si continua virtualmente, in un continuum desolante.
Con la pandemia e la Dad, gli episodi di cyberbullismo sono notevolmente aumentati portando a un’aggressione solo virtuale.
I numeri sono veramente da capogiro.
D’altra parte, alla faccia del “Ne usciremo migliori” dopo che “Andrà tutto bene”, la nostra società appare assai più aggressiva: si moltiplicano ad esempio le liti stradali, quelli per strada, i giovani si riuniscono in bande, il disagio dilaga ed impera.
Spesso le vittime sono giovani di colore, anche italiani, e i suicidi purtroppo si susseguono, come ci dice la cronaca più recente .
È arrivato il momento di intervenire e, nell’ottica di “ognuno faccia la sua parte”, io vi invito alla riflessione.
Come riconoscere un bullo
Quando si parla di bullismo e cyberbullismo bisogna tener presente che si tratta di fenomeni complessi con più attori:
- il bullo;
- la vittima;
- la massa che assiste e con il suo silenzio di fatto supporta il violento.
A volte il bullo è un piccolo gruppo di due o tre ragazzi (o ragazze) che esercita l’aggressione verso una vittima, in forma verbale e/o fisica.
Come si arriva ad essere un bullo?
Bisogna partire dalle prime forme di socializzazione, e cioè dalla scuola dell’infanzia.
I bambini con un futuro da bullo si vedono già lì.
Sono quelli prepotenti, che prendono in giro i compagni, fanno dispetti, per farla breve creano problemi. Le insegnanti fanno del loro meglio per contenere queste forme di esuberanza.
Quando si arriva alle scuole primarie la situazione cambia: i bambini devono imparare e le forme di disturbo non sono ben viste né tollerate.
Anche senza volerlo viene attuata una selezione e in modo “naturale” vengono preferiti gli alunni che non creano problemi.
Gli altri trovano ugualmente “naturale” assumere il ruolo in cui maggiormente si ritrovano, e cioè quello dei ragazzi terribili. Che cominciano anche ad associarsi e a fare gruppo fra loro.
Ogni bambino ha bisogno, oltre che di affetto, rispetto e altre necessità essenziali, di avere una identità ed un ruolo.
Prenderà quello che gli sarà attribuito, anche perché, ricordiamolo, a partire dai sette anni si forma la capacità di stabilire una correlazione fra causa ed effetto e si inizia a parlare di coscienza.
Non prima.
In questa fase comincia ad avere peso anche il vissuto familiare e soprattutto la possibile discrepanza fra i valori e le regole imposti nell’ambiente scolastico e quelli che si trovano nelle famiglie.
È risaputo che se in passato i genitori attribuivano autorità agli insegnanti, di modo che un bambino punito a scuola lo era anche a casa, oggi i genitori di un bambino punito contestano anche vivacemente l’operato degli insegnanti.
Il disaccordo tra le principali agenzie educative è disastroso.
In passato le famiglie educavano i bambini in modo rigoroso. C’era un sistema premiante o punitivo a seconda dell’aderenza o meno alle regole imposte, che erano uguali per tutti.
Con la rivoluzione tecnologica, l’avvento di Internet e della globalizzazione i valori (e di conseguenza le regole) sono diventati “liquidi”, con la splendida definizione del sociologo Zygmunt Bauman.
Significa che i valori non sono più condivisi e ciascuno deve scegliere i propri.
Il continuo discernimento fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è faticoso. Non tutti comprendono l’importanza di ogni scelta, anche piccola, che viene imposta ai propri figli.
D’altra parte abbiamo a che fare con la fisiologia. Quando un bambino è molto piccolo la parte attiva è quella del tronco cerebro-spinale, il famoso “cervello del rettile”, e i comportamenti sono istintivi e spesso aggressivi.
In questa fase l’adulto deve intervenire. Se non lo fa, il risultato è che il bambino sarà ingestibile, una furia scatenata convinta di poter fare qualsiasi cosa.
Ne vediamo tanti in giro: nei supermercati, nei bar, nei ristoranti, in genere nei luoghi pubblici.
E la giustificazione è sempre la stessa: “è solo un bambino”.
Più avanti, fino ai sette anni, è la parte centrale del cervello che si attiva, il cosiddetto “cervello di Neanderthal”, e anche lì siamo distanti dal comportamento del piccolo Lord.
È solo dai sette anni in poi che inizia a formarsi la coscienza e la corteccia cerebrale, la nostra parte evoluta.
Nei primi sette anni di vita dunque è di fondamentale importanza l’intervento educativo da parte degli adulti della famiglia.
Bullismo e cyberbullismo: come affrontarli in famiglia
Per l’attuale diffusione dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo, che fino a una ventina d’anni fa non erano uniformemente presenti, ogni genitore si troverà prima o poi ad avere un figlio:
- vittima;
- bullo;
- spettatore di aggressione verso altri.
Non si può più pensare che la cosa riguardi solo altri.
Cosa si può fare?
In genere, quando si scopre che il proprio figlio è vittima di bulli, la prima reazione è quella di intervenire personalmente.
Parlare con il dirigente scolastico e gli insegnanti però difficilmente sortirà un effetto positivo, e questo perché:
- quasi nessun dirigente scolastico sa cosa fare in questi casi;
- quasi nessun insegnante sa cosa fare;
- potrebbero intervenire le Forze dell’Ordine davanti ad atti molto gravi (e non ce lo auguriamo).
Di contro, quello che succede sicuramente è che la posizione del figlio sarà ulteriormente indebolita e i bulli troveranno un altro modo per infierire, peggiorando la situazione della vittima.
Cosa è preferibile fare:
- inserire il figlio in un contesto positivo (scout, associazioni, attività fra coetanei) in cui possa aumentare la propria autostima. Molti studi di settore infatti ci dicono che è possibile ribaltare il malessere e il disagio dovuti alla bullizzazione e neutralizzarne gli effetti;
- rinforzare il figlio con uno sport. Molti traggono benefici dal sentirsi in grado di difendersi praticando un’arte marziale;
- e soprattutto dialogare con il figlio, sviscerando tutti gli aspetti di ciò che gli succede in questo campo ed in tutti gli altri. Il compito dei genitori è supportare i figli educandoli ed indirizzandoli.
Cosa fare se invece si scopre di essere genitori di un bullo?
Sicuramente questa è la situazione più difficile, soprattutto se la scoperta arriva come un fulmine a ciel sereno.
È difficile accettare che quello che noi vediamo come un angelo, il nostro bambino, in realtà sia un aguzzino che gode nel far soffrire gli altri.
Questo è precisamente il primo passo: accettare la realtà.
Il secondo passo è iniziare a dialogare con il figlio, veramente ed in profondità, scoprendone il lato oscuro e sofferente.
Perché una cosa è sicura: un minore che è sereno difficilmente si metterà a tormentare un coetaneo traendone soddisfazione.
Il terzo passo è chiedere aiuto a un/una professionista per essere supportati in un percorso di crescita familiare.
Spesso è utile aiutare il figlio nel recuperare una dimensione di espressività e/o di gestione della rabbia.
Ogni caso è un caso a sé.
Ed infine, resta il caso, molto più frequente, dell’essere genitore di uno spettatore.
Un bambino che ha paura.
Forse lo abbiamo educato al rispetto della regola del “farsi i fatti propri”, del non intervenire se una cosa non lo riguarda.
Anche qui, bisogna prendere atto della propria responsabilità che non è solo verso il proprio figlio, è verso tutta la generazione del figlio e verso quelle che verranno.
Perché l’educazione che oggi impartiamo ai nostri figli sarà la base che verrà usata verso i nostri nipoti.
Non possiamo crescere degli ignavi.
Il rimedio è il dialogo, il più elevato e nobile possibile. È il restituire a nostro figlio la dimensione della responsabilità personale, della compassione verso chi soffre, del sentirsi chiamato in causa perché il mondo è anche suo e sua è una parte di responsabilità nel tracciare il futuro.
È utile anche qui la partecipazione a gruppi positivi con una forte connotazione solidale, ma anche il rinforzo della sua autostima e del suo coraggio.
Infine, visto che ho chiamato in causa più volte lo strumento del dialogo, un sintetico promemoria su cosa vuol dire dialogare.
Il nostro stato deve essere non giudicante. Dobbiamo essere pronti ad accogliere lo stato d’animo del figlio senza giudicarlo.
È difficile, lo so. È necessario uno sforzo di consapevolezza assai grande.
Una volta raggiunta la nostra consapevole assenza di giudizio, si può passare all’ascolto.
Ascolto in cui dobbiamo farci entrare ciò che dice nostro figlio non solo nelle orecchie e nella testa, ma anche nel cuore, ed accettarlo anche se dovesse bruciare come acido solforico.
Solo dopo aver ascoltato tutto, fino in fondo, possiamo dargli la dimostrazione di aver capito ciò che ha detto. Di aver accolto i suoi contenuti, anche se dolorosi.
Ed infine, la risposta.
Che cambierà a seconda del caso. Che potrà essere una proposta, una decisione, o anche un semplice, meraviglioso, abbraccio.
Spesso i genitori si lamentano del silenzio dei propri figli e della mancanza non solo di dialogo, ma di qualsiasi atto comunicativo.
Tornano a casa, gli chiediamo “come è andata oggi?” e la risposta spazia dal borbottio al grugnito al laconico “bene”.
Come dunque aprire il canale di dialogo tra genitori e figli?
Con pazienza, scegliendo il momento giusto, iniziando a creare momenti di condivisione di tempo in famiglia e poi prendendo spunto da qualsiasi cosa, anche una notizia ascoltata al telegiornale, per chiedergli con semplicità “tu che ne pensi?”.
Se in passato abbiamo ascoltato distrattamente quello che il figlio ci ha detto dovremo faticare un po’ per farci prendere sul serio.
E allora è utile ricordare che, anche se non sembra, anche se il figlio è chiuso in se stesso o è burbero con noi, siamo la persona che il figlio ama più di ogni altro al mondo.
Se dobbiamo riconquistarlo, perché magari abbiamo attraversato un periodo difficile in cui eravamo confusi e smarriti, in cui lo abbiamo ignorato, avviciniamolo come si fa con una creatura selvatica che ci ha dimenticato: con cautela, con offerte di qualcosa che gli fa piacere, con sguardi.
Con amore.