“Ormai abbiamo tutti due vite” (ndr una reale e una virtuale). Con questa consapevolezza ha inizio la seconda di copertina del libro “Annessi e connessi – la vita al tempo dei social” di Alessio Giannone, in arte Pinuccio.
E chi meglio di lui può, con l’ironia che lo contraddistingue, condurci nel dietro le quinte di questa onlife che viviamo tutti quotidianamente, fatta di alternanza tra vita online e offline.
Alessio è stato tra i primi a saper cogliere le opportunità del Web, divenendo famoso nel 2011 su YouTube con le esilaranti telefonate immaginarie a politici e personaggi famosi.
Dal 2015 poi è divenuto uno dei più noti inviati di Striscia la Notizia dove, con la sua pungente satira politica e sociale, denuncia inciuci, ingiustizie, malfunzionamenti e complotti del nostro paese.
Non risparmiando nemmeno noi elettori e naviganti del Web.
Attualmente è candidato ufficialmente per il prossimo Cda della Rai, con lo slogan: “Apriremo la Rai come un barattolo di sugo“
Ma Alessio non è solo il suo personaggio.
È soprattutto un autore, regista e attore, avvicinatosi al teatro fin dai tempi del liceo.
Oggi andremo alla scoperta del suo secondo libro, edito Mondadori, dove ci condurrà in un viaggio tra temi “sociali e social”, affrontando argomenti quali:
- la “felicità aumentata”, che ci spinge a descriverci più felici e appagati di quello che siamo in realtà, come vivessimo nel famoso Mulino Bianco;
- la solitudine digitale e la ricerca del consenso;
- la politica sui social;
- i cambiamenti della comunicazione digitale durante la pandemia.
Un libro dal sorriso amaro, fatto sì di situazioni comiche ma soprattutto di riflessioni frutto di un’attenta osservazione della altri e della vita che mostrano sui social.
Il racconto surreale del Natale nella sua famiglia, ben diverso e più reale di quelli patinati sfoggiati sui social, le influencer Lil Miquela e Ninetta (nome di fantasia), le vacanze fake dell’amico Oronzo, la descrizione dell’Apocalisse a fronte del protrarsi di un down dei social media, la storia della frittata di cozze con i gusci fatta in Puglia, la partecipazione a un tour organizzato a bordo di un pulmino.
Situazioni capaci di strapparci un sorriso ma con il fine ultimo di aiutarci a capire meglio noi stessi.
La felicità aumentata
«Da cosa deriva la nostra felicità oggi, dall’esperienza di determinati momenti o dalla loro rappresentazione?»
È innegabile, tutti noi sui social ci mostriamo felici, emulando quegli influencer che sono diventati per noi un punto di riferimento e per i quali la felicità è uno strumento di marketing efficace.
In nome di un beneficio (economico o di fama) per il quale siamo disposti a sacrificare la nostra privacy e praticare il look fake ovvero modificare a tal punto la nostra immagine sui social da non essere più reali (e spesso ridicoli).
In bilico tra chi siamo e viviamo e quello che mostriamo.
Ecco così ostentare una felicità non reale o che, talvolta, sarebbe meglio facesse parte di una sfera più intima e privata, come le numerose immagini di ecografie, parti e foto di bambini presenti sui profili social (fenomeno noto come sharenting).
Per non parlare poi dei baby influencer, bambini con profili social gestiti dai genitori, che spesso ne sono i manager, che in ogni dichiarazione urlano la loro felicità.
Una vita all’interno di una bolla del consenso, in cui fare di tutto per ottenere un pungo di like.
Dove i pareri discordanti vengono subito tacciati, spesso con una veemenza a dir poco eccessiva dove si cerca lo scontro a tutti i costi, come mostrano gli haters che, intorno all’odio e facendo leva su paure e pregiudizi, costruiscono un vero e proprio personaggio.
Spesso adulti insoddisfatti (“odiatori Over”) che cercano nei social una nuova giovinezza o una rivincita, poiché “nella vita hanno fatto palo” ovvero coloro che, come i calciatori che mancano al gol, anzichè dare colpa a sé stessi o al destino la danno al palo.
«L’infelicità obbliga a fare e farsi delle domande: la felicità no. Ormai il dubbio che dietro le foto patinate dei nostri contatti social possa nascondersi qualche problema o malessere non ci sfiora più. Su quest’ultima osservazione si potrebbe obiettare che anche nella vita reale indossiamo delle maschere. Ma alle maschere i social aggiungono filtri che ci separano ancor di più dal contatto diretto con la realtà»
La solitudine digitale e la ricerca del consenso
Non aderire agli standard della felicità aumentata è possibile, ma ci farà sentire più soli e isolati.
Perché l’altra faccia della felicità aumentata è la solitudine sociale.
Per evitare la quale si cerca continuamente il consenso.
Ecco dunque chi, per ottenerlo, si rende ridicolo (come mostrano le esibizioni di alcuni adultescenti su TikTok) e chi ostenta un dolore (la fine di una relazione, la scomparsa di una persona cara, una malattia).
Per essere protagonisti a tutti i costi e misurare questo consenso con i like e il numero di follower che si ottengono.
Autocensurandosi per non perdere il consenso guadagnato o cadere vittima di commenti negativi e violenti.
Una ricerca, quella della felicità e del consenso, che inevitabilmente ci spinge a passare sempre più tempo sui social e a consultare continuamente le notifiche del nostro smartphone.
Ma come siamo arrivati a questo punto? È vero che apparire viene prima dell’essere?
Basta osservarci quotidianamente e osservare chi è intorno a noi per trovare la risposta. Tendiamo a non approfondire, ad essere impazienti, a volere tutto e subito.
La nostra vita è quella che Pinuccio paragona a un pesce rosso in un acquario in attesa di cibo.
Quello stesso pesce rosso che è stesso dimostrare avere una soglia di attenzione superiore alla nostra.
Nel nostro caso l’acquario è il Web con i suoi messaggi semplicistici (non semplici, come ci spiegherà Alessio), che fanno uso di un linguaggio che “sceglie quali verità raccontare, distorce la realtà, piega i fatti alle opinioni anche quando i fatti si basano su evidenze scientifiche”.
Messaggi usati non solo nelle pubblicità che vorrebbero spingerci all’acquisto rapido con un semplice click ma, purtroppo, in politica (e nelle campagne elettorali).
«Se l’elettore è ormai considerato alla stregua di un consumatore, i partiti sono brand che decidono di vendere scarpe piuttosto che pantaloni a seconda delle necessità del cliente.
E, proprio come i grandi brand, i partiti studiano attentamente il loro pubblico e confezionano messaggi su misura».
Del resto la Rete sa tutto di noi, e siamo noi ad avergli fornito tutte queste informazioni.
Pur sapendo tutto questo, come anche si interroga l’autore, sapremo smettere di essere degli “annessi” per tornare a essere “connessi”?
Sicuramente grazie a Pinuccio e al suo libro, se anche non troveremo subito le risposte inizieremo quantomeno a farci le domande.